Daiquiri

Before dinner cocktail

  • 4,5 cl Rum bianco
  • 2,5 cl Succo di lime
  • 1,5 cl Sciroppo di zucchero

 Procedimento: si prepara nello shaker e si serve in una coppetta a cocktail raffreddata. Anche il Daiquiri, come il Bacardi, non prevede decorazione.

Il Daiquiri (o Daiquirì) è un cocktail di origini caraibiche. Già in voga negli USA ai primi del Novecento, si può bere anche come corroborante e dissetante. Le sue origini paiono risalire al 1898, in piena guerra tra Stati Uniti e Spagna e precisamente dopo l’affondamento della nave Maine, nel porto dell’Avana. Secondo gli storiografi, un marine sbarcò in un piccolo villaggio nei pressi di Santiago di Cuba, precisamente a Daiquiri. Qui per placare la sete entrò in una baracca che fungeva da mescita. Rifiutandosi sdegnosamente di bere Rum liscio, lo fece allungare con succo di lime e poi lo corresse ulteriormente con un po’ di zucchero. Nacque così il Daiquiri. Da notare che nello stesso periodo, secondo alcuni, nacque anche il Cuba Libre.

Un’altra leggenda riportata dal sito Elfloridita.net, sposta la sua data di nascita pochi anni più tardi, nel 1905, quando alcuni ingegneri americani impegnati nei lavori in una miniera, lo inventarono e gli diedero il nome della spiaggia cubana Daiquiri. Andò così: l’ingegnere Pagliuchi visitò una miniera di ferro ad est di Cuba chiamata Daiquiri. Qui chiese al suo collega americano, tale Jennings S. Cox, il funzionamento della miniera per poterne esplorare altre. Alla fine della giornata, Pagliuchi propose di bere qualcosa. La leggenda narra che Cox aveva a disposizione solo Rum, dei lime e dello zucchero. Miscelarono gli ingredienti in uno shaker con ghiaccio e Pagliuchi chiese: “Come si chiama questo cocktail?”. “Non ha un nome…potrebbe essere un rhum sour”, rispose Cox. Pagliuchi concluse: “Questo nome non è degno di un cocktail così fine e delizioso come il nostro. Lo chiameremo Daiquiri”. Su Elfloridita.net è presente anche una versione molto simile a quella appena citata.

 

Rum

Una volta il Rum era un prodotto secondario della canna da zucchero, ottenuto distillando la melassa (la parte residua del sugo zuccherino dopo estratto lo zucchero). Oggi, in tutte le Antille, è il prodotto principale. L’ingrediente principe è la canna da zucchero, già coltivata nel 200 a.C. dagli indiani e dai cinesi. I Romani la conobbero appena, tanto che Plinio parla dello zucchero come “miele colpo nelle canne, candido come incenso, che si rompe con i denti; il granello più grosso è come una nocciola e si usa soltanto in medicina”.

Nell’anno 1000 fu trapiantato in Sicilia dagli Arabi, ma questo continuò ad essere usato solo in caso di malattia. Il suo nome ce lo ricorda: Saccharum officinarum, dove Saccharum è la voce araba che sta per “granello di sabbia”, mentre officinarum vuol dire “officinale, delle farmacie”. Gli Arabi non pensarono mai di convertire lo zucchero di canna in bevanda alcolica: questo avvenne solo molti secoli dopo, quando nelle colonie occidentali dell’Europa nel centro America, iniziò la coltivazione della canna da zucchero. Protagonisti (in negativo e positivo) furono: schiavi, tabacco, zucchero e Rum; Africa, America ed Europa. E chi ne trasse profitto furono sicuramente le nazioni europee, principalmente Francia, Inghilterra e Spagna.

Giorgio Spini nel suo “Storia dell’Età Moderna”, così scrive: “ Strani anelli cominceranno quindi a ricollegare l’una parte del mondo all’altra: Rum fabbricato nelle distillerie europee o nordamericane andrà in Africa ad esservi barattato, presso i reucci indigeni, con schiavi negri, i quali a loro volta dovranno essere scambiati alle Indie occidentali con melasse, perché la stessa nave possa ricomparire ai porti di partenza ed alimentare con queste melasse le distillerie del Rum: grano e legname dell’America inglese andranno nelle Indice occidentali – prive altrettanto di legname per la fabbricazione di barili che di cereali per l’alimentazione dei piantatori e degli schiavi – a scambiarsi con le solite melasse, che poi si trasformeranno in Rum, destinato a comprare schiavi africani e così a ricomparire sui mercati delle Indie occidentali. Per quanto grondante di sangue e di vergogna, la realtà di un’economia di dimensioni mondiali si impone all’Occidente, spingendo avanti i popoli che possono entrare in lizza nella sua gara e respingendo invece spietatamente tutta quella parte d’Europa che, per una ragione o per l’altra, resta tagliata fuori da questo circolo di linfe.”[1]

[1] Giorgio Spini, Storia dell’età moderna (1515-1763),  Einaudi, Torino 1990.

 

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